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samedi, 15 janvier 2011

Gli ultimi trionfi del denaro e della macchina nella filosofia della storia di Oswald Spengler

Gli ultimi trionfi del denaro e della macchina nella filosofia della storia di Oswald Spengler

Francesco Lamendola

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Nato a Blankenburg, nel Magdeburgo, nel 1880 e morto a Monaco nel 1936 – in buon punto per evitare le conseguenze del suo rifiuto di approvare il violento antisemitismo del regime hitleriano -, Oswald Spengler è stato uno dei filosofi più discussi e controversi del XX secolo, suscitando fervidi entusiasmi e ripulse totali e irrevocabili. Per alcuni egli è stato il teorico del nazionalsocialismo, nella misura in cui – pur non aderendo formalmente ad esso – aveva sostenuto la necessità di instaurare un forte potere militare e affermato la superiorità della razza «bianca» e della preponderanza della Germania nel quadro politico mondiale. Altri hanno visto in lui il maggiore erede di Nietzsche, della sua fedeltà alla terra e della volontà di potenza, oltre che un continuatore del relativismo storicistico di Dilthey e, quindi, il legittimo continuatore della tradizione filosofica tedesca di fine Ottocento.

La sua concezione organicistica delle civiltà, secondo la quale ogni civiltà è equiparabile a un essere vivente che nasce, si sviluppa, decade (nella fase della «civilizzazione») e, da ultimo, muore, apparve – ed era – una tipica forma di biologismo sociale, dominata com’era da una darwiniana strength for life, ove le civiltà vecchie e deboli devono cedere il passo a quelle giovani e forti. Concezione che a molti non piacque, e che tuttavia appariva fondata su cospicui elementi di realtà oggettiva, e che tanto più difficile sembrava smentire quanto più l’Autore dispiegava, per sostenerla, una immensa congerie di osservazioni tratte dalla musica, dall’architettura, dalla storia delle religioni e da quella dell’economia e della tecnica.

Piacque, soprattutto ai Tedeschi, l’implicito machiavellismo sotteso a tutta l’opera: per cui, nelle convulsioni della disfatta al termine della prima guerra mondiale (Il tramonto dell’Occidente venne pubblicato tra il 1918 e il 1922, ossia negli anni più bui mai vissuti sino ad allora dalla Germania), era possibile intravedere una ripresa e, forse, persino una futura rivincita, a patto di sapere accettare il proprio destino e di percorrere sino in fondo la strada tracciata dalle presenti forze storiche, materiali non meno che spirituali.

Otto, secondo Spengler, sono le civiltà che si sono succedute, dall’origine ad oggi, nel panorama della storia mondiale, sviluppando quei «cicli di cultura» i quali tendono a ripetersi con caratteristiche sostanzialmente analoghe, pur nella diversità delle situazioni specifiche. Esse sono state la babilonese, l’egiziana, la indiana, la cinese, la greco-romana (o «apollinea»), l’araba (o «magica»), quella dei Maya e, infine, l’occidentale (che Spengler definisce «faustiana»). Si sono avvicendante secondo una cadenza di circa mille anni, soggiacendo a leggi in tutto e per tutto simili a quelle degli organismi viventi e finendo per estinguersi e scomparire completamente – tranne la nostra, che è destinata, però, a concludersi come le altre.

Si suole affermare che qualcosa di una civiltà continua a permanere anche al di là di essa, ma è un errore. Ogni civiltà è destinata a una fine totale, che trascina con sé anche i valori da essa emanati; nessun valore può sopravvivere al di là della civiltà che lo ha prodotto. I valori sono deperibili, proprio come le civiltà; possono, semmai, essere sostituiti da altri valori, frutto di altre civiltà. Non esistono valori assoluti, così come non esistono verità assolute; ogni verità è relativa al contesto della civiltà che la pone e, esauritasi quest’ultima, anche il concetto di verità si sbriciola, si frantuma. La stessa idea di progresso, non è altro che una illusione.

Quanto alla civiltà occidentale, essa è ormai quasi giunta al termine del proprio ciclo vitale e, quindi, alla successiva, inevitabile estinzione: non resta che prenderne atto e seguire il destino che ci si prepara, rinunciando alla chimera di poter tramandare valori imperituri o di poter mutare il corso della storia, bensì sfruttando l’ultimo guizzo di luce prima del crepuscolo.

Ma già si fa avanti la prossima civiltà, che prenderà il posto di quella occidentale: la civiltà russa, che dominerà a sua volta la scena della storia mondiale, finché non avrà esaurito il suo ciclo e scomparirà a sua volta.

La civiltà occidentale, dunque, non ha nulla di speciale, in se stessa, perché si debba pensare che possa sfuggire al destino di tutte le altre civiltà. Anzi, essa è già entrata, e da tempo, nella fase della civilizzazione, caratterizzata dal gigantismo delle sue creazioni esteriori e dal progressivo esaurimento del suo spirito vitale, della sua «anima».

D’altra parte, negli ultimi secoli della sua vicenda millenaria si è prodotto un evento finora sconosciuto alla storia dell’umanità: il sopravvento della tecnica, della macchina, sulla natura e sull’uomo stesso, che ne è divenuto lo schiavo. È nata una figura nuova, quella dell’ingegnere; che, molto più importante dell’imprenditore o dell’operaio dell’industria, tiene in mano i futuri sviluppi della civiltà occidentale. Ma il tempo di quest’ultima è ormai quasi compiuto; la fine è imminente. Si tratta soltanto di vedere se l’uomo occidentale saprà assecondare il movimento della storia, creando una nuova forma di potenza – quella del signore, che non si cura dei profitti personali come fa il mercante e che, a differenza di lui, mira ad instaurare una società basata sull’armonia generale e non sul vantaggio egoistico di pochi capitalisti.

Questa posizione spiega l’atteggiamento di cauto interesse nei confronti del socialismo, inteso come principio etico più che come concreto movimento storico; e coniugato, d’altronde, con un forte elemento di tipo nazionalistico, sì da far pensare più al nazionalsocialismo che al comunismo sovietico. Ma forse, dopotutto, Spengler aveva la vista più lunga di quanto non sembrasse ai suoi detrattori e aveva intuito che, dietro le grandi differenze esteriori, nazismo e stalinismo avevano più cose in comune di quante non fossero disposti ad ammettere sia l’uno che l’altro. Per cui la sua profezia, che alla fine l’idea del denaro si sarebbe scontrata con l’idea del sangue; ossia che i valori mercantili sarebbero venuti a una resa dei conti con i valori aristocratici, conteneva elementi tutt’altro che peregrini; tanto è vero che molti intellettuali europei di destra – a cominciare da Julius Evola, traduttore dal tedesco de Il tramonto dell’Occidente nella nostra lingua – avrebbero visto nella seconda guerra mondiale, a torto o a ragione, precisamente questo tipo di scontro finale. E così la vide anche Berto Ricci, andato volontario a combattere (e a morire) in Libia contro gli Inglesi, lui sposato e padre di famiglia, nella speranza di vedere – come scrisse in una delle sue ultime lettere – il sorgere di un mondo un po’ meno ingiusto, un po’ meno ladro di quello allora esistente.

Scriveva, dunque, Oswald Spengler nelle pagine conclusive de Il tramonto dell’Occidente (titolo originale: Der Untergang des Abendlandes, traduzione italiana di Julius Evola, Longanesi &C., Milano, 1957, 1978, vol. 2, pp. 1.390-98):

…contemporaneamente al razionalismo, si giunge alla scoperta della macchina a vapore che sovverte tutto e trasforma dai fondamenti l’immagine dell’economia. Fino a allora la natura aveva avuto la parte di una coadiutrice; ora la si riduce a una schiava e il suo lavoro, quasi per scherno, lo si calcola secondo cavalli-vapore. Dalla forza muscolare del negro sfruttata nelle aziende organizzate, si passò alle riserve organiche della scorza terrestre dove l’energia vitale di millenni è immagazzinata sotto specie di carbone, e infine lo sguardo si è portato sulla natura inorganica, le cui forze idrauliche sono state già arruolate ad integrare quelle del carbone. Coi milioni e miliardi di cavalli-vapore la densità di popolazione raggiunge un livello che nessun’altra civiltà avrebbe mai ritenuto possibile. Questo aumento è conseguenza della macchina, la quale vuol essere servita e diretta, in cambio centuplicando le forze di ogni individuo. È con riferimento alla macchina che la vita umana va ora a rappresentare un valore. Il lavoro diviene la grande parola d’ordine del pensiero etico. Già nel diciottesimo secolo esso in tutte le lingue aveva perduto il suo significato negativo originario. La macchina lavora e costringe l’uomo a lavorare insieme ad essa. Tutta la civiltà è giunta ad un tale grado di attivismo, che sotto di esso la terra trema.

E ciò che si è svolto nel corso di appena un secolo è uno spettacolo di una tale potenza, che l’uomo di una futura civiltà, di una civiltà con una anima diversa e con diverse passioni, avrà il sentimento che la stessa natura ne doveva esser stata scossa nel suo equilibrio. Anche in altri tempi la politica passò sopra città e popoli e l’economia umana incise profondamente sui destini del regno animale e vegetale; ma tutto ciò sfiorò appena la vita e di nuovo sparì. Invece questa tecnica lascerà le sue tracce anche quando tutto sarà dimenticato e sepolto. Questa passione faustiana ha trasformato l’imagine della superficie terrestre.

Qui ha agito un impulso della vita a trascendere e ad innalzarsi che, intimamente affine a quello del gotico, al tempo dell’infanzia della macchina a vapore trovò espressione nel monologo del Faust di Goethe. L’anima ebbra vuol portarsi di là da spazio e tempo. Una indicibile nostalgia la attira verso lontananze sconfinate. Ci si vorrebbe staccare dalla terra, ci si vorrebbe perdere nell’infinito, si vorrebbero sciogliere i vincoli del corpo ed errare nello spazio cosmico fra le stelle. Ciò che all’inizio fu cercato dal fervido empito ascensionale di un San Bernardo, ciò che Grünewald e Rembrandt evocarono negli sfondi dei loro quadri e Beethoven negli accordi trasfigurati dei suoi ultimi quartetti, torna di nuovo nell’ebbrezza spirituale donde procede questa fitta serie di invenzioni. È così che si è formato un sistema fantastico di mezzi di comunicazione che ci fa attraversare interi continenti in pochi giorni, e ci porta con città galleggianti di là da ogni oceano, che trafora montagne e lancia convogli a velocità pazze nei labirinti delle ferrovie sotterranee; e dalla veccia macchina a vapore, da tempo esaurita nelle sue possibilità, si è passati ai motori a gas per infine staccarsi dalle vie e dalle rotaie ed elevarsi negli spazi. Così la parola parlata in un attimo può esser inviata oltre ogni mare; prorompe il piacere per records di ogni specie e per le dimensioni inaudite, ambienti giganteschi vengono costruiti per macchine titaniche, navi enormi e ponti ad incredibile gettata, costruzioni pazzesche che raggiungono le nubi, forze meravigliose incatenate in un punto in modo tale che basta la mano di un bambino per metterle in movimento, opere di cristallo e di acciaio che vibrano nel frastuono di ogni specie di meccanismi nelle quali, questo essere minuscolo, si muove come un signore assoluto sentendo finalmente sotto di sé la natura.

E queste macchine nella loro forma sono sempre più disumanizzate, sempre più ascetiche, mistiche, esoteriche. Esse avvolgono la terra con una rete infinita di forze sottili, di correnti e di tensioni. Il loro coro si fa sempre più spirituale, sempre più chiuso. Queste ruote, questi cilindri, queste leve non parlano più. Ciò che in esse è più importante si ritira all’interno. La macchina è stata sentita come qualcosa di diabolico, e non a torto. Agli occhi del credente essa rappresenta la detronizzazione di Dio. Essa pone la causalità sacra nelle mani dell’uomo e questi la mette silenziosamente, irresistibilmente in moto con una specie di preveggente onnisapienza.

Mai come oggi un microcosmo si è sentito superiore al macrocosmo. Oggi vediamo piccoli esseri viventi che con la loro forza spirituale hanno ridotto il non vivente a dipendere da loro. Nulla sembra eguagliare un simile trionfo che è riuscito ad un’unica civiltà e forse solo per la durata di qualche secolo.

Ma proprio per tal via l’uomo faustiano è divenuto schiavo della sua creazione. Nelle sue mosse così come nelle sue abitudini di vita egli sarà spinto dalla macchina in una direzione sulla quale non vi sarà più né sosta, né possibilità di tornare indietro. Il contadino, l’artigiano, perfino il commerciante appaiono d’un tratto insignificanti di fronte a tre figure cui lo sviluppo della macchina ha dato forma: l’imprenditore, l’ingegnere e l’operaio industriale. In questa civiltà, e in nessun’altra al di fuori di essa, da un piccolo ramo dell’artigianato, cioè dall’economia dei manufatti, si è sviluppato il possente albero che oscura ogni altra professione: il mondo economico dell’industria meccanica. E questo mondo costringe sia l’imprenditore che l’operaio industriale ad obbedirgli. Entrambi sono gli schiavi, non i signori della macchina che ora comincia a manifestare il suo occulto potere demonico. Ma se le attuali teorie socialistiche hanno solo voluto vedere il rendimento dell’operaio non avanzando che per il lavoro di questi le loro rivendicazioni, un tale lavoro è tuttavia reso possibile esclusivamente dall’attività decisiva e sovrana dell’imprenditore. Il famoso detto del braccio possente che fa arrestare tutte le ruote è un errore. Per fermarle, non c’è bisogno di essere operai. Ma per tenerle in moto, non basta essere operai. È l’organizzazione, è il dirigente che costituisce il centro di tutto questo regno artificiale e complesso della macchina. Il pensiero, non il braccio, tiene insieme un tale regno. Ma proprio per questo, per mantenere in piedi siffatto edificio perennemente pericolante, una figura è ancor più importante della stessa energia di nature dominatrici in veste di imprenditori che fa scaturire da suolo intere città e che sa trasformare l’immagine del paesaggio – una figura, che nelle lotte politiche si è soliti dimenticare: l’ingegnere, sapiente sacerdote della macchina. Non sol il livello ma la stessa esistenza dell’industria dipendono dall’esistenza di centinaia di migliaia di menti qualificate e ben addestrate che dominano e fanno progredire incessantemente la tecnica.

L’ingegnere è propriamente il silenzioso dominatore e il destino dell’industria meccanica. Il suo pensiero è come possibilità quel che la macchina è come realtà. Si è temuto, materialisticamente, l’esaurirsi dei giacimenti di carbone. Ma finché esisteranno degli scopritori di sentieri di un rango superiore pericoli di tal genere saranno inesistenti. Solo quando questo esercito di inventori, il cui lavoro intellettuale forma una interna unità con quello della macchina, non avrà più una posterità, l’industria, malgrado la presenza di imprenditori e di operai si spegnerà. Anche se la salute dell’anima dei migliori delle future generazioni venisse considerata più importante di tutta la potenza della terra e se per influenza di quella mistica e di quella metafisica che oggi stano soppiantando il razionalismo il sentimento del satanismo della macchina guadagnasse terreno in una élite spirituale sollecita di quella salute – sarebbe l’equivalente del passaggio da Ruggero Bacone a Bernardo di Chiaravalle – anche in questo caso nulla arresterà la conclusione di questo grande dramma dello spirito nel quale le forze materiali hanno solo una parte secondaria.

L’industria occidentale ha sostato le vie già seguite dal commercio delle altre civiltà. Le correnti della vita economica si portano verso le sedi del «re carbone» e le aree ricche di materie prime; la natura viene saccheggiata, tutta la terra viene offerta in olocausto al pensiero faustiano sotto specie di energia. La terra che lavora è l’essenza della visione faustiana; nel contemplarla, muore il Faust della seconda parte. Del poema, nella quale il lavoro dell’imprenditore ha avuto la sua suprema trasfigurazione. È la suprema antitesi all’esistenza statica e sazia del periodo imperiale antico. L’ingegnere è il tipo più lontano dal pensiero giuridico romano ed egli otterrà che la sua economia abbia un proprio diritto: un diritto nel quale le forze e le opere prenderanno il posto delle persone e delle cose.

Ma non è meno titanico l’assalto sferrato dal danaro contro questa potenza spirituale. Anche l’industria è legata alla terra – come l’elemento contadino. Essa ha le sue sedi, i suoi impianti, le sue sorgenti di energia vincolate al suolo. Solo l’alta finanza è completamente libera, completamente inafferrabile. A partire dal 1789 le banche e quindi le Borse si sono sviluppate come una potenza autonoma grazie al bisogno di credito determinato dall’enorme incremento dell’industria e, come il danaro in tutte le civilizzazioni, questa potenza ora vuol essere l’unica potenza. L’antichissima lotta fra economia di produzione e economia di conquista prende ora le proporzioni di una lotta gigantesca e silenziosa di spiriti svolgentesi sul suolo delle città cosmopolite.

È la lotta disperata del pensiero tecnico, il quale difende la sua libertà contro il pensiero in funzione di danaro.

La dittatura del danari si consolida e si avvicina ad un apice naturale – ciò sta accadendo oggi nella civilizzazione faustiana come già è accaduto in ogni altra civilizzazione. Ed ora interviene qualcosa che può esser compreso solo da chi ha penetrato il significato essenziale del danaro faustiano. Se il danaro faustiano fosse qualcosa di tangibile, di concreto, la sua esistenza sarebbe eterna; ma poiché esso è una forma del pensiero, esso scomparirà non appena il mondo dell’economia sarà stato pensato a fondo: scomparirà per l’esaurirsi della materia che gli fa da substrato. Quel pensiero è già penetrato nella vita della campagna mobilitando il suolo; esso ha trasformato in senso affaristico ogni specie di mestiere; oggi esso penetra vittoriosamente nell’industria per mettere le mani sullo stesso lavoro produttivo dell’imprenditore, dell’ingegnere e dell’operaio. La macchina col suo seguito umano, la macchina, questa vera sovrana del secolo, è in procinto di soggiacere ad una più forte potenza. Ma questa sarà l’ultima delle vittorie che il danaro può riportare; dopo, comincerà l’ultima lotta, la lotta con la quale la civilizzazione conseguirà la sua forma conclusiva: la lotta tra danaro e sangue.

L’avvento del cesarismo spezzerà la dittatura del danaro e della sua arma politica, la democrazia. Dopo un lungo trionfo dell’economia cosmopolita e dei suoi interessi sulla forza politica creatrice, l’aspetto politico della vita dimostrerà di essere, malgrado tutto, il più forte. La spada trionferà sul danaro, la volontà da signore piegherà di nuovo la volontà da predatore. Se designiamo come capitalismo le potenze del danaro e se per socialismo s’intende invece la volontà di dar vita a un forte ordinamento politico-economico di là da ogni interesse di classe, ad un sistema compenetrato da una preoccupazione aristocratica e da un sentimento di dovere che mantengano il tutto in una salda forma in vista della lotta decisiva della storia – allora lo scontro tra capitalismo e socialismo potrà significare anche quello fra danaro e diritto. Le potenze private dell’economia vogliono avere mani libere perla conquista delle grandi fortune. Non intendono che nessuna legge sbarri loro la via. Vogliono leggi che vadano nel loro interesse e per questo si servono dello strumento che esse stesse si sono create, della democrazia e dei partiti pagati. Per far fronte ad un tale assalto il diritto ha bisogno di una tradizione aristocratica, dell’ambizione di forti schiatte capaci di trovare la loro soddisfazione non nell’accumulazione delle ricchezze bensì nei compiti propri ad un’autentica razza di capi di là da ogni vantaggio procurato dal danaro. Una potenza può esser rovesciata solo da un’altra potenza, non da un principio; ma al di fuori della potenza del danaro non ve ne è un’altra, oltre a quella ora detta. Il danaro potrà essere spodestato e dominato soltanto dal sangue. La vita è la prima e l’ultima delle correnti cosmiche in forma microcosmica. Essa costituisce la realtà per eccellenza nel mondo considerato come storia. Di fronte all’irresistibile ritmo agente nella successione delle generazioni alla fine scompare tutto ciò che l’essere desto ha costruito nei suoi mondi dello spirito. Nella storia l’essenziale è sempre e soltanto la vita, la razza, il trionfo della volontà di potenza, non il trionfo delle verità, delle invenzioni o del danaro. La storia mondiale è il tribunale del mondo ed essa ha sempre riconosciuto il diritto della vita più forte, più piena, più sicura di sé: il suo diritto all’esistenza, non curandosi se ciò venga riconosciuto giusto o ingiusto dall’essere desto. La storia ha sempre sacrificato la verità e la giustizia alla potenza, alla razza, condannando a morte gli uomini e i popoli per i quali la verità è stata più importante dell’azione e la giustizia più essenziale della potenza. Così lo spettacolo offerto da una civiltà superiore, da questo meraviglioso mondo di divinità, di arti, di idee, di battaglie, di città, si chiude di nuovo con i fatti elementari del sangue eterno, che fa tutt’uno con l’onda cosmica in perenne circolazione. Come già il periodo imperiale cinese e quello romano ce l insegnano, l’essere desto con tutta la sua ricchezza delle sue forme è destinato a tornare silenziosamente al servizio dell’essere, della vita; il tempo trionferà dello spazio ed è esso che col suo corso inesorabile incanalerà col suo corso fuggevole, che sul nostro pianeta rappresenta la civiltà, in quell’altro accidente, che è l’uomo: forma nella quale l’accidente «vita» scorre per un certo periodo, mentre nel mondo illuminato che si apre al nostro sguardo appaiono, dietro a tutto ciò, gli orizzonti in moto della storia della terra e di quella degli astri.

Ma per noi, posti da un destino in questa civiltà e in questo punto del suo divenire in cui il danaro celebra i suoi ultimi trionfi e in cui il suo erede, il cesarismo, ormai avanza silenziosamente e irresistibilmente, è strettamente definita la direzione di quel che possiamo volere e che dobbiamo volere, a che valga la pena di vivere. A noi non è data la libertà di realizzare una cosa anziché l’altra. Noi ci troviamo invece di fronte all’alternativa di fare il necessario o di non poter fare nulla. Un compito posto dalla necessità storia sarà in ogni caso realizzato: o col concorso dei singoli o ad onta di essi.

Ducunt fata volentem, nolentem trahunt.

Come ha osservato Domenico Conte (in Introduzione a Spengler, Laterza Editori, Bari, 1997, p. 30 sgg.), sono almeno tre le prospettive dalle quali Spengler osserva il movimento della storia universale.

La prima è una dimensione “popolare”, che vede la contrapposizione pura e semplice fra mondo della natura e mondo della storia (ciò che riecheggia la distinzione diltheyana fra scienze della natura e scienze dello spirito: cfr. F. Lamendola, Essenza della filosofia e coscienza della sua storicità nel pensiero di Wilhelm Dilthey). Il mondo della natura è statico, quello della storia è dinamico; il mondo della natura è sottoposto a leggi regolari e costanti, quello della storia è unico e irripetibile.

La seconda dimensione è, propriamente, quella della filosofia della storia, basata sulla concezione organicistica delle civiltà, che egli assimila a degli organismi viventi. È questo l’aspetto più noto della sua concezione filosofica, quello che ha destato maggiori consensi ma anche le critiche più pesanti, da parte di coloro i quali hanno evidenziato l’arbitrarietà di una analogia in senso stretto fra la vita degli organismi e la «vita» delle civiltà umane.

La terza prospettiva, che potremmo definire metafisica, è quella che ruota intorno al concetto spengleriano di «anima» delle civiltà. È qui che il pensatore tedesco ha sviluppato la parte più originale delle sue riflessioni, istituendo complessi e vorticosi parallelismi fra gli elementi formali delle singole civiltà e spaziando, con tono ispirato e quasi da veggente, attraverso i campi più svariati dell’arte, della scienza e della tecnica. Ed è qui che ha dispiegato quel suo stile turgido e solenne, drammatico e affascinante, che gli ha conquistato la simpatia di tante schiere di lettori ma anche, inevitabilmente, la diffidenza o il disdegno di molti filosofi di più austera concezione, ivi compresi gli idealisti ideali e, segnatamente, Benedetto Croce.

Quanto a noi, quello che più ci colpisce nella concezione della storia di Spengler è la brutalità, per così dire, ovvero la crudezza del suo vitalismo biologico. Unendo la volontà di Schopenhauer con la selezione naturale di Darwin, l’autore de Il tramonto dell’Occidente delinea un mondo della storia dominato da inesorabili leggi biologiche, ove tutto ciò che resta della libertà umana non è altro che la libertà di “scegliere” un destino tra segnato dalle forze della storia stessa, oppure di precipitare nell’impotenza più completa.

Spengler, come si è visto, è estremamente esplicito a questo riguardo: nella storia l’essenziale è sempre e soltanto la vita, la razza, il trionfo della volontà di potenza, non il trionfo delle verità, delle invenzioni o del danaro. La storia mondiale è il tribunale del mondo ed essa ha sempre riconosciuto il diritto della vita più forte, più piena, più sicura di sé: il suo diritto all’esistenza, non curandosi se ciò venga riconosciuto giusto o ingiusto dall’essere desto. La storia ha sempre sacrificato la verità e la giustizia alla potenza, alla razza, condannando a morte gli uomini e i popoli per i quali la verità è stata più importante dell’azione e la giustizia più essenziale della potenza.

Questo è il dramma di una concezione della storia chiusa in sé stessa, opera di un essere umano gettato a caso nel mondo e destinato a sparire, come già sono scomparse tante altre forme di vita prima di lui. Solo quando si dà per scontata la assoluta insignificanza dell’uomo in quanto persona unica e irripetibile, nonché la radicale immanenza della storia, si può giungere a proclamare, senza ombra di turbamento “sentimentale”, che la verità non ha alcuna importanza e che quello che conta è solo la potenza.

Peggio ancora, Spengler afferma – senza batter ciglio – che la storia è il tribunale del mondo, il che equivale ad innalzare la realtà effettuale al di sopra di tutto e implica, come logica conseguenza, l’adorazione dell’esistente, visto come l’affermazione, attraverso la lotta, di ciò che è migliore, nel senso di più forte. Si tratta di un tribunale che non riconosce valori o principi, ma solo dati di fatto; e che si inchina solo davanti a quelle forze storiche che sanno imporre, nietzscheanamente, una vita più piena e più sicura di sé, non una vita più giusta o più buona.

Nel clima di generale disorientamento intellettuale e morale dei primi decenni del Novecento, milioni di persone hanno fatto propria una tale filosofia della forza e si sono lasciate trascinare da capi politici che l’avevano adottato come loro credo incondizionato.

Negli ultimi giorni della sua vita, quando i carri armati sovietici irrompevano già per le vie di una Berlino distrutta dai bombardamenti aerei, Hitler ebbe a riconoscere – assai a denti stretti – che i Russi, alla fine, si erano dimostrati più forti dei Tedeschi e che, quindi, meritavano di divenire i nuovi signori dell’Europa. Anche Mussolini, negli ultimi tempi della sua vita, si era più volte lamentato del fatto che gli Italiani non erano stati all’altezza del grande destino offertosi a portata delle loro possibilità e che, pertanto, avevano meritato pienamente la sconfitta.

Ma se la storia non è altro che un tribunale del mondo fondato sul diritto del più forte, bisogna sempre aspettarsi che la forza di oggi ceda, domani, davanti a una forza più grande o semplicemente più spregiudicata; il che equivale a fare della storia umana una giungla insanguinata, popolata di zanne e di artigli sempre protesi a ghermire la preda, lacerarla e massacrarla. Il tribunale assomiglia pericolosamente a un mattatoio, da cui si levano incessantemente muggiti di terrore e grida di dolore; un tribunale che sanziona il diritto della forza in luogo della forza del diritto.

Se così fosse, vorrebbe dire che nessun progresso è stato compiuto dai tempi degli eroi omerici, trascinati in una spirale infinita di violenza per acquisire la gloria, che richiede sempre nuova violenza per conservare ed accrescere la gloria stessa: e ciò in un mondo ove tutti mirano allo stesso obiettivo, e ridotto, quindi, a un eterno, sanguinoso campo di battaglia di ciascuno contro tutti. Spengler, nemico dell’idea di progresso, non aveva alcuna difficoltà ad ammetterlo; ma noi, che pure non adoriamo l’idea (illuministica) del progresso, possiamo ammettere che la civiltà cui apparteniamo non abbia saputo minimamente elaborare l’insegnamento di quelle che l’hanno preceduta, per instaurare non già un mondo concreto di giustizia e armonia, ma almeno l’idea di una superiore giustizia e di una necessaria armonia?

jeudi, 01 juillet 2010

La "Damnatio memoriae" fruto de la memoria historica

La Damnatio memoriae fruto de la memoria histórica

Alberto Buela (*)

Cuando el historiador Ernst Nolte demostró allá por los años ochenta del siglo pasado que la historia reciente de Alemania, especialmente la de la segunda guerra mundial, se había transformado en un pasado que no pasa, el mundo académico y los voceros de la policía del pensamiento saltaron como leche hervida. Es que Nolte puso en evidencia el mecanismo por el cual la memoria histórica había reemplazado a la historia como ciencia, con lo que quedó en evidencia la incapacidad histórica de los famosos académicos y los presupuestos ideológicos-políticos que guiaban sus investigaciones.

Es sabido que la memoria es siempre la memoria de un sujeto individual o si se quiere de una persona, singular y concreta. La memoria no existe más que como memoria de alguien. Su naturaleza estriba en otorgarle al sujeto el principio de identidad. Yo soy yo y me reconozco como tal a lo largo del tiempo de mi vida por la memoria que tengo de mi mismo desde que existo hasta el presente. Si existe o no una “memoria colectiva” esta es una cuestión que no está resuelta. El gran historiador alemán  Reinhart Koselleck (1923-2006) sostuvo que no. Así, en su última  entrevista en Madrid, publicada póstumamente el 24/4/2007, afirma:

Y mi posición personal en este tema es muy estricta en contra de la memoria colectiva, puesto que estuve sometido a la memoria colectiva de la época nazi durante doce años de mi vida. Me desagrada cualquier memoria colectiva porque sé que la memoria real es independiente de la llamada "memoria colectiva", y mi posición al respecto es que mi memoria depende de mis experiencias, y nada más. Y se diga lo que se diga, sé cuáles son mis experiencias personales y no renuncio a ninguna de ellas. Tengo derecho a mantener mi experiencia personal según la he memorizado, y los acontecimientos que guardo en mi memoria constituyen mi identidad personal. Lo de la "identidad colectiva" vino de las famosas siete pes alemanas: los profesores, los sacerdotes (en el inglés original de la entrevista: priests), los políticos, los poetas, la prensa..., en fin, personas que se supone que son los guardianes de la memoria colectiva, que la pagan, que la producen, que la usan, muchas veces con el objetivo de infundir seguridad o confianza en la gente... Para mí todo eso no es más que ideología. Y en mi caso concreto, no es fácil que me convenza ninguna experiencia que no sea la mía propia. Yo contesto: "Si no les importa, me quedo con mi posición personal e individual, en la que confío". Así pues, la memoria colectiva es siempre una ideología, que en el caso de Francia fue suministrada por Durkheim y Halbwachs, quienes, en lugar de encabezar una Iglesia nacional francesa, inventaron para la nación republicana una memoria colectiva que, en torno a 1900, proporcionó a la República francesa una forma de autoidentificación adecuada en una Europa mayoritariamente monárquica, en la que Francia constituía una excepción. De ese modo, en aquel mundo de monarquías, la Francia republicana tenía su propia identidad basada en la memoria colectiva. Pero todo esto no dejaba de ser una invención académica, asunto de profesores.”

En concordancia con esto ya había reaccionado cuando el gobierno alemán decidió erigir un símil de la estatua de La Piedad en la Neue Wache para venerar a las víctimas de las guerras producidas por Alemania. Koselleck levantó su voz crítica para advertir que un monumento de connotación cristiana resultaba una "aporía de la memoria" frente a los millones de judíos caídos en ese trance. Pero también en 1997, cuando el ayuntamiento de Berlín decidió erigir un monumento para recordar el Holocausto judío, volvió a la palestra para recordar que los alemanes habían matado por igual a católicos, comunistas, soviéticos, gitanos y gays. Nadie como él, entre los historiadores, hizo tanto para desembarazar a la escritura y a las representaciones de la historia del brete a que la someten los ideólogos de la “memoria histórica”.

El reemplazo de la historia como ciencia, como conocimiento por las causas, con el manejo metodológico que exige el trabajo sobre los testimonios y materiales del pasado, por parte de la memoria histórica siempre parcial e interesada (la ideología es un conjunto de ideas que enmascara los intereses de un grupo, clase o sector) ha desembocado en la moderna damnatio memoriae o condena de la memoria.

La damnatio memoriae era una condena judicial que practicaba el senado romano con los emperadores muertos por la cual se eliminaba todo aquello que lo recordaba. Desde Augusto en el 27 a.C. hasta Julio Nepote en el 480 d.C. fueron 34 los emperadores condenados. Se llegaba incluso hasta la abolitio nominis, borrando su nombre de todo documento e inscripción. Se buscaba la destrucción de todo recuerdo. Se destruían sus bustos y estatuas. Suetonio cuenta que los senadores lanzaban sobre el emperador muerto las más ultrajantes y crueles invectivas. La intención era borrar del pasado todo vestigio que recordara su presencia.

Las damnationes se realizaban a partir del poder constituido y su presupuesto ideológico era: de aquello que no se habla no existe. Arturo Jauretche, ese gran pensador popular argentino en su necrológica de nuestro maestro, José Luís Torres, nos habla de la confabulación del silencio como mejor mecanismo de los grupos de poder.  Es una manifestación de prepotencia del poder establecido, con lo que busca eliminar el recuerdo del adversario, quedando así el poder actual como único dueño del pasado  colectivo.

No es necesario ser un sutil pensador para comparar estas destrucciones de la memoria y eliminaciones de  todo recuerdo con lo que sucede con nuestros gobiernos de hoy. En España una vez muerto Franco comenzó una campaña de difamación contra su persona y sus obras que llegó hasta cambiarle el nombre al pueblo donde nació. En Argentina cuando cayó Perón en 1955 se prohibió hasta su nombre (por dictador), reapareció la vieja abolitio nominis. Hace poco tiempo el gobierno de Kirchner hizo bajar el cuadro del ex presidente Videla (por antidemócrata). Al General Roca que llevó la guerra contra el indio le quieren voltear la estatua (por genocida). Se le quitó el nombre del popular escritor Hugo Wast a un salón de la biblioteca nacional (por antijudío). Y así suma y sigue.

Cuando la historia de un pueblo cae en manos de la memoria colectiva o de la memoria histórica lo que se produce habitualmente es la tergiversación de dicha historia, cuya consecuencia es la perplejidad de ese pueblo, pues se conmueven los elementos que conforman su identidad.

Es que la memoria lleva, por su subjetividad, necesariamente a valorar de manera interesada lo qué sucedió y cómo sucedió. Así para seguir con los ejemplos puestos, objetivamente considerados, Franco fue un gobernante austero y eficaz, Perón no fue un dictador, Videla fue un liberal cruel, Roca no fue un genocida y Wast fue un novelista católico. Vemos que aquello que deja la memoria histórica es un relato mentiroso que extraña al hombre del pueblo sobre sí mismo.

La memoria histórica es un producto de la mentalidad y los gobiernos jacobinos, aquellos que gobiernan a favor de unos grupos y en contra de otros. Aquellos que utilizan los aparatos del Estado no en función de la concordia interior sino como ejercicio del resentimiento, esto es, del rencor retenido, dando a los amigos y quitando a los enemigos. La sana tolerancia de la visión y versión del otro acerca de los acontecimientos históricos es algo que la memoria histórica no puede soportar, la rechaza de plano. La consecuencia lógica es la dammnatio memoriae, la condena de la memoria del otro.

 

(*) arkegueta, eterno comenzante- Univ. Tecnológica Nacional

alberto.buela@gmail.com

  

lundi, 23 février 2009

La modernité s'épuise, l'histoire continue

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SYNERGIES EUROPÉENNES - VOULOIR (Bruxelles) - Juillet 1994

Noël RIVIÈRE & Pierre LE VIGAN:

La modernité s'épuise, l'histoire continue

On s'accorde à considérer qu'il y a crise du lien social. Cette crise est celle de l'ensemble des formes de ce lien: le politique, le religieux, la représentation du beau, la place de l'homme dans le monde. L'individualisme et l'utilitarisme - la conjonction des deux - sont à l'origine de cette crise. La génèse de l'utilitarisme a été bien éclairée par les travaux de Louis Dumont. Mais la crise du lien social survient avec retard par rapport au déploiement des nouvelles valeurs. Le nouvel état d'esprit rationnel et utilitaire se déploie en plusieurs vagues. La première se traduit par une révolution des consciences.

 

L'individualisme en est le fruit.  Il marque l'entrée dans l'ère de la subjectivité.  Dans celle-ci, l'important est l'histoire individuelle de chacun. Lucien Sève a appelé cela "la révolution biographique". Elle prend son essor vers le 14ème siècle, au moment où nous entrons, selon l'expression de Pierre Chaunu, dans le système du monde plein. L'homme commence alors à se poser en s'opposant: aux autres et au monde. Le premier aspect est une constante de l'histoire; le recul du holisme donne toutefois aux affrontements une forme differente. C'est principalement dans le second aspect que réside la nouveauté, dans une volonté de maîtriser le monde. Plus, de le domestiquer. Cette volonté a pour origine une peur nouvelle du monde. Car c'est au moment où l'homme commence à prendre la mesure de l'immensité cosmique qu'il se sent abandonné par un Dieu unique qui ne joue pas le rôle d'intercesseur et de partenaire qui était celui des anciens dieux.

 

Au 5è siècle ap. J-C, Augustin établit dans La cité de Dieu les bases de ce que l'on appelera l'augustinisme politique: a) existence d'une société surnaturelle distincte de la société terrestre, b) caractère légitime des institutions politiques (même quand les souverains sont païens), c) pouvoir séculier détenu par les évêques representant la providence divine.

Augustin allie la raison et l'argument d'autorité: il faut comprendre pour croire. Au 9ème siècle, Scot Erigène précise: "nisi crediteritis, non intelligetis". Le pseudo-Denys, Maxime le Confesseur, les néo-platoniciens font de la raison un adjuvant majeur de la foi. En mettant la raison au centre des valeurs, en l'affirmant comme outil de l'autonomie terrestre et de la séparation de l'homme et de la nature, la pensée chrétienne crée les conditions d'une prochaine sortie de la religion. Thomas d'Aquin tente de réinstaurer le rapport de la foi et de la raison sur un mode moins impératif: Dieu n'a pas à être prouvé par la raison selon Thomas, il se prouve parce que l'homme existe - qui est sa créature. Le sujet humain peut connaître l'erreur, mais non Dieu. La raison humaine est admise implicitement comme pouvant être faillible; il est toutefois possible de comprendre Dieu à partir du monde, en mettant la pensée au travail, en s'élevant, à partir de la connaissance de la nature, par l'analogie, vers l'universel, jusqu'à la conclusion de l'existence de Dieu. Le rapport entre l'être et l'existence est le rapport d'un acte à une puissance, l'être actualisant la puissance - qu'Heidegger appellera le Dasein (=l'étant). Thomas développe ainsi une thématique qui s'oppose à celle d'Augustin et de Bonaventure pour qui il y a immédiateté de l'évidence de Dieu. Bref répit. La tentative thomiste de stabilisation des rapports de la religion et de la raison est aussitôt mise à mal.

Notamment par Duns Scot. Celui-ci critique à la fois le néo-platonisme augustinien (et la théorie de l'"illumination divine") et un aristotélisme représenté par Thomas et le philosophe arabe Avicenne (980-1037). Pour Duns Scot, démontrer l'existence de Dieu n'est pas tâche théologique mais métaphysique. Cela revient à démontrer la possibilité pour un être infini d'exister. Mais si la métaphysique peut conclure à l'existence de cet infini, elle ne peut le comprendre. Duns Scot postule ainsi une absence de passage entre le plan de l'être, accessible par la métaphysique, et le plan de Dieu, relevant de la théologie (cf. Hervé Rousseau, la pensée chrétienne, PUF, 1973); il s'inscrit dans le prolongement de la thèse de Boèce (début du VIè siècle ap. JC) selon laquelle "toutes les catégories changent de sens lorsqu'elles sont appliquées à Dieu". En postulant aussi que la volonté de connaissance est préalable à l'existence de l'intellect, Duns Scot autonomise la volonté, ouvrant ainsi la voie au renforcement d'un individualisme déjà présent dans le thème de la Révélation.

 

Guillaume d'Ockham développe un point de vue très proche du scotisme en écrivant: "il ne saurait y avoir supposition en dehors d'une proposition". Pour  Ockham, l'existence de Dieu est improuvable. Il considère, ainsi que Duns Scot, que c'est un credibilia. Il approfondit ainsi le fossé entre Dieu et l'être qui date d'Augustin. Etre et existence sont pensés comme tous deux causés, créés par Dieu. Il n'y a pas de participation de l'homme au divin via le biais d'une participation à l'être.  L'objet de la théologie est de constater Dieu, tandis que l'objet de la philosophie est de prouver le monde. Dans celui-ci, ne sont réels que les objets particuliers, position qui caractérise un nominalisme (ou terminisme) opposé à la recherche des essences ou des universaux. Le bien, le beau, l'amour sont ainsi sans statut, et sans réelle existence. Le seul universel est extra-humain: c'est Dieu.

 

En séparant radicalement l'étude du monde et celle de Dieu, l'ockhamisme, illustré notamment par Buridan et Nicolas d'Autrecourt, ouvre la voie à une étude du monde "débarrassée" de la présence divine. Il inaugure (indépendamment de l'avatar historique que constitue les condamnations du nominalisme) le conflit entre science et spiritualité, dont l'affaire Galilée est le symbole. Il renforce la mise en minorité de la nature dans la pensée chrétienne - c'est-à-dire dans la pensée dominante. Les nominalistes, dans le même temps qu'ils affirment l'autonomie de la raison et de la volonté, libèrent le champ pour une éclosion du mysticisme dans la sphère religieuse, comme le note justement H. Rousseau (op. cit.).  D'où un foyer de tensions et de déséquilibres lourd d'explosions.

Le critique d'art Lionello Venturi écrit à partir du cas italien les lignes suivantes - qui sont valables pour l'ensemble de l'Europe: "A partir de Saint-François, c'est-à-dire à partir du 13è siècle, les italiens ne s'intéressent plus à la théologie comme avant; ils rêvent d'une fraternité humaine et aiment les choses terrestres avec un renouveau d'émotions qui projette le Christ et son action dans la vie journalière de l'homme, c'est ce qui donne naissance au 15è siècle à une foi nouvelle en l'homme. On exalte l'homme comme le centre de l'univers et on le divinise" (cité in André Amar, l'Europe a fait le monde. Histoire de la pensée européenne. Présence Planète, 1966). Il y a dans ces lignes tous l'optimisme préliminaire à la modernité. Mais aussi beaucoup d'inconscience.

 

Le conflit ouvert entre science et spiritualité après Thomas est un approfondissement du clivage augustinien entre Dieu et l'être. Il reste ouvert tout au long du développement des sciences. Il oppose par exemple Descartes et Newton. Le premier assigne à l'homme la mission de constituer une "science universelle" et de se rendre "maître et possesseur de la nature". Aussi, quand Glucksmann situe Descartes "à l'origine d'un humanisme négatif", il faut comprendre: à l'origine d'une conception dans laquelle l'homme n'accroit son être que dans la mesure où il nie l'être du reste du  monde. A l'inverse de Descartes, Newton refuse la vision mécanique de la nature imprégnée de la raison et développe une conception théiste de la science. Bien que ses thèses scientifiques soient d'une valeur incontestablement supérieure à celles de Descartes, Newton représente une ligne de pensée minoritaire dans le mouvement des idées. Car s'agrandit le fossé entre Dieu d'une part, l'être, le monde, l'homme et la philosophie d'autre part. Cette étape est bien caractérisée par Lukàcs, dont Reinhard Mocek résume ainsi le point de vue sur cette période: "L'Ecriture n'est pas concernée par la science moderne, mais, en conséquence, la science ne peut plus procurer ce qui encore paraissait dans les oeuvres de Bacon et de Galilée: la certitude de l'être! Plus la science accomplit de progrès important, et plus les doutes apparaissent béants" (De Hegel à Lukàcs, le problème de l'ontologie, La Pensée, n°268, 1989). Spinoza est représentatif de cet état d'esprit. Il écrit: "J'ai acquis l'entière conviction que l'Ecriture laisse la raison absolument libre et n'a rien de commun avec la philosophie". En clair, un partage des rôles: d'un coté, l'Ecriture, qui relève de la foi, de l'autre, le monde, qui relève de la libre raison. Etape nouvelle dans l'assomption de la raison: Spinoza estime que celle-ci, outre la qualité d'autonomie, a la capacité de s'appliquer à l'examen des Ecritures elles-mêmes. Dans le même temps, l'amour de Dieu doit naître de la connaissance des lois "claires et distinctes" de la nature, ce qui ouvre la voie à un théisme scientiste. La religion comme la science sont déjà entrés dans l'ère post-chrétienne même si les mots pour le dire sont ceux du christianisme. 

 

Le déplacement de la question de Dieu hors du champ de la philosophie est alors chose acquise pour quelques siècles. Kant le confirme, à la suite notamment de Berkeley (1685-1753) et du cardinal Bellarmin (1542-1621). Le noyau de ses conceptions est résumé ainsi par Lukàcs: "on ne saurait reconnaitre la moindre valeur ontologique à aucune de nos connaissances du monde matériel" (cité in R. Mocek, art. cit.). Si le kantisme constitue la pointe extrème de la rationalisation du christianisme, une inversion se produit simultanément qui est la déchristianisation du rationalisme. Hegel tente de restaurer l'identité entre théologie et philosophie, en supposant que dialectiquement l'Esprit s'aliène dans la matière, puis se reconnait enfin en lui-même. Ecrivant que "l'essence de la nature ne concerne en rien l'extérieur", Hegel défend l'idée que la nature se manifeste "en tant qu'unité du monde" (Hans Heinz Holz, in La Pensée, n°268, mars-avril 1989). L'éclatement de la postérité d'Hegel en multiples courants montre que, là encore, la stabilisation des rapports religion-science sur la base du christianisme n'est pas viable. Le philosophe et protestant Schleiermacher pose bien le problème au milieu du 19è siècle (Lettre à Lücke, cité in H. Rousseau, op. cit.): "Le noeud de l'histoire devra-t-il se dénouer ainsi: le christianisme du côté de la barbarie, et l'incrédulité du côté des sciences ?... Si la Réformation, des débuts de laquelle est issue notre Eglise, n'a pas pour but d'établir un pacte perpétuel entre la foi vivante et la recherche scientifique libre, accomplissant son travail en toute indépendance, de sorte que la première n'entrave pas plus la seconde que celle-ci n'exclut la première, alors la Réforme ne satisfait pas aux besoins de notre époque, et il nous en faudra une autre, quels que puissent être les combats qui seront nécessaires".

++

Francis Fukuyama remarque: "Le désir (de reconnaissance) et la raison suffisent à eux deux pour expliquer le mouvement de l'industrialisation, et plus généralement une bonne partie de la vie économique" (La fin de l'histoire et le dernier homme, Flammarion, 1992). Le désir de reconnaissance est de fait un puissant moteur d'action à partir du moment où les individus se voient précisement comme tels, c'est-à-dire séparés du groupe (1). En ce sens, la démocratie libérale constitue la forme politique la plus adéquate pour l'économie de marché. Par l'égalité des droits civils et civiques, elle transfère le désir de reconnaissance - le thymos (2) - dans la seule sphère économique, faisant de celle-ci le champ privilégié des affrontements et des affirmations individuelles. "La force de l'économie libérale, écrit Fukuyama, est d'utiliser la démocratie (...) comme sa ruse. C'est cette égalité des droits qui maximise l'investissement dans la compétition au sein de la sphère du travail" (op. cit.). La situation peut ainsi être résumée avec justesse par l'historien de l'économie François Caron: "Le fondement réel du libéralisme politique est le libéralisme économique. Ils sont indissociables" (Le débat, n°68, 1992). Le rôle de l'économie libérale, c'est-à-dire de l'économie libérée (de toute entrave), est aussi bien vu par Jean-Pierre Dupuy, l'auteur d'un ouvrage sur "Le sacrifice et l'envie". Il affirme: "L'économie contient la violence aux deux sens du verbe contenir: elle lui fait barrage mais elle a cette violence en elle" (entretien accordé à Vendredi, 11 décembre 1992).

Mais l'économicisme ayant affaibli la capacité des sphères politiques et culturelles d'exister en propre et d'être productrices d'identités individuelles et collectives, l'économie est sommée de produire elle-même ces identités. D'où le développement de l'esprit d'entreprise (3), l'utilisation des valeurs du militantisme dans certains secteurs professionnels (on parle par exemple de militants du développement local, de militants des énergies propres, etc), la vogue des histoires d'entreprises. Fukuyama n'a rien inventé. Hobbes, dans Le Léviathan, exprime bien cette idée de désir de reconnaissance consécutif à l'éclatement des représentations collectives: "(...) chaque homme tient à ce que son compagnon l'évalue au même prix qu'il s'estime lui-même". Et cette recherche subjective de la reconnaissance rencontre un critère objectif formulé un siècle plus tard par le grand philosophe de l'utilitarisme Hume: "Ce qui est vrai, c'est ce qui réussit".

 

Nous en sommes là: au stade de l'utilitarisme et de l'assimilation du vrai au rationnel. La raison a triomphé de ses ennemis, d'où une "mélancolie" rationaliste apparentée à la "mélancolie démocratique" de Pascal Bruckner. La course à la reconnaissance est la règle. Mais c'est parce que c'est produit un basculement global des visions du monde. Kant pensait qu'"une communauté authentiquement humaine n'est pas constructible sur le mensonge". La société moderne est simplement construite sur l'oubli de l'être. Ce n'est forcément plus rassurant. Cet oubli a entrainé la déchristianisation; et c'est en même temps le christianisme qui, dés l'origine, en est porteur. Marcel Gauchet a résumé cet aspect des choses en une formule vive: "Le christianisme aura été la religion de la sortie de la religion" (le désenchantement du monde, Gallimard, 1985). Au service des pouvoirs pour construire son pouvoir, l'Eglise a contribué à identifier l'irreligion à la maîtrise du destin terrestre et du destin social des hommes, sapant ainsi les bases de la croyance à mesure que l'outil de la raison, par elle valorisé, faisait apparaître qu'il n'est de connaissance du monde que ne soit une intervention sur le monde. C'est dans la "modeste, imperceptible bifurcation de l'augustinisme politique" que M. Gauchet situe le pas à partir duquel s'engage la dissolution de l'histoire proprement chrétienne. C'est donc au moment où le christianisme se rigidifie du point de vue des pratiques et de l'idéologie que nous amorçons notre sortie de l'age religieux. Il se produit alors ce que l'on peut nommer éclipse du sacré ou retrait du divin. "Avec le retrait de Dieu, remarque M. Gauchet, (...), le monde, d'intangiblement donné qu'il était, devient à constituer" (op. cit.). Le champ est par là pleinement ouvert à une laïcisation de l'éthique. Celle-ci, comme l'avait bien vu La Mettrie, comportait une possible dimension émancipatrice: abandon des "fausses vertus traditionnelles (humilité, pitié, remords, repentir), et revendication d'une sagesse matérialiste tournée vers la vie terrestre et son affirmation" (Olivier Bloch, le matérialisme, PUF, 1985, p. 73). Mais le retrait de Dieu par accomplissement de la promesse chrétienne d'avênement de la raison aboutit aussi à dévaloriser le monde en le transformant en pur champ d'expérimentation, et à se tromper sur l'homme en le rabattant sur la nature - méconnaissant que "la nature de l'homme, c'est de n'en avoir point" (Arnold Gehlen). La modernité est contradictoire. Et c'est pourquoi l'éclipse du sacré est réversible.

La vision antique était la suivante: au dessus des dieux, le monde. La vision chrétienne fut: au dessus du monde, Dieu. Résultat: un monde sans Dieu et une raison devenue dieu.  La vision de demain pourrait être: au dessus des hommes, le monde; avec le monde (nés avec), les dieux, et avec les hommes, la raison, pour comprendre, agir, intervenir. Et accepter le monde.

 

 

Noël RIVIERE et Pierre LE VIGAN

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(1) Jean Saint-Geours, dans Moi et nous (politique de la société mixte, préface de P. Bérégovoy, Dunod, 1992) tente de définir une troisième voie entre le holisme pur - qui s'énoncerait "nous" - et l'individualisme - qui s'énonce "moi et eux".

(2) De thymos, on déduit l'isothymia, désir d'être reconnu comme égal, et la mégalothymia, désir d'être reconnu comme supérieur. Le thymos est aussi l'ardeur spirituelle, celle qu'évoque Nietzsche qand il parle de l'homme comme de "la bête aux joues rouges".

(3) voir les remarquables analyses de Jean-Pierre Le Goff, le mythe de l'entreprise, La Découverte/essais, 1992. J-P Le Goff définit l'idéologie de l'entreprise, "une de ces petites idéologies qui ont fleuri sur l'ère du vide", comme fondée sur l'idée que "l'homme doit s'investir totalement dans le travail". Cette idéologie renforce selon lui la "souffrance au travail et le désarroi ambiant" (cf. son entretien in Courrier cadres, 27 novembre 1992).

 

mercredi, 11 février 2009

El cantor del nuevo mito - Giorgio Locchi revisitado

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El cantor del nuevo mito. Giorgio Locchi revisitado.

Adriano Scianca



“…sonaba, tan antiguo, y sin embargo era tan nuevo…”

Richard Wagner


Y por último llegó la “globalización”. En dos mil años de pensamiento único igualitario nos hemos tragado: la “inevitable” venida de los tiempos mesiánicos, el “inevitable” avance del progreso técnico, económico y moral, el “inevitable” advenimiento de la sociedad sin clases, el “inevitable” triunfo del dominio americano, la “inevitable” instauración de la sociedad multirracial. Y ahora, precisamente, es la globalización la que se impone como “inevitable”. El camino ya está trazado, nada podemos contra el Sentido de la Historia. Es cierto que la entrada triunfal en el Edén final es postergada de manera continua porque siempre surgen pueblos impertinentes que no aprecian los hegelianismos en salsa yanqui como los anteriormente citados. Pero, tarde o temprano- nos lo dice Bush, nos lo dicen los pacifistas, nos lo dicen los científicos, los filósofos y los curas- la historia llegará a su fin. Seguro. ¿Seguro?



¿El fin de la historia?

Es verdad: la historia, efectivamente, puede llegar a su fin. Es del todo plausible que en el futuro que nos espera se pueda asistir al triste espectáculo del “último hombre” que da saltitos invicto y triunfante. Pero este es sólo uno de los posibles resultados del devenir histórico. El otro, también este siempre posible, va en la dirección opuesta, hacia una regeneración de la historia a través de un nuevo mito. Palabra de Giorgio Locchi. Romano, licenciado en Derecho, corresponsal en París de “Il tempo” durante más de treinta años, animador de la primera y más genial Nouvelle Droite, fino conocedor de la filosofía alemana, de música clásica, de la nueva física, Locchi ha representado una de las mentes más brillantes y originales del pensamiento anti-igualitario posterior a la derrota militar europea del 45.

Muchas jóvenes promesas del pensamiento anticonformista de los años 70 conservan todavía hoy el nítido recuerdo de las visitas que hicieron a “Meister Locchi” en su casa de Saint-Cloud, en París, “casa a la que muchos jóvenes franceses, italianos y alemanes se dirigían más en peregrinaje que de visita; pero simulando indiferencia, con la esperanza de que Locchi (…) estuviese como Zarathustra con el humor adecuado para vaticinar y no, como desgraciadamente sucedía más a menudo, para que les hablase del tiempo o de su perro o de actualidades irrelevantes” (1). Las razones de tal veneración no pasan tampoco inadvertidas para quienes sólo hayan conocido al autor romano a través de sus textos. Leer a Locchi, de hecho, es una “experiencia de verdad”: tomemos su Wagner, Nietzsche e il mito sovrumanista – un “gran libro”, “unos de los textos clásicos de la hermenéutica wagneriana”, como lo define Paolo Isotta en el… ¡Corriere della Sera! (2)- uno se encuentra ante el desvelamiento (a-letheia) de un saber original y originario. Desvelamiento que no puede ser nunca total.

La aristocrática prosa de Locchi es, de hecho, hermética y alusiva. El lector es conquistado por ella, tratando de atisbar entre las líneas y de captar un saber ulterior que, estamos seguros de ello, el autor ya posee pero dispensa con parsimonia (3). A aumentar la fascinación de la obra de Locchi, además, contribuye también la vastedad de referencias y la diversidad de los ámbitos que toca: de las profundas disertaciones filosóficas a los amplios paréntesis musicológicos, pasando por las referencias a la historia de las religiones y por las audaces digresiones sobre la física y la biología contemporánea. Quien está acostumbrado a la atmósfera asfixiante de cierto neofascismo onanista o a los tics de los evolamaniacos de estricta observancia es raptado inmediatamente por todo ello.



La libertad histórica

El punto de partida del pensamiento locchiano es el rechazo de todo determinismo histórico, es decir, la idea de que “la historia- el devenir histórico del hombre- surge de la historicidad misma del hombre, es decir, de la libertad histórica del hombre y del ejercicio siempre renovado que de esta libertad histórica, de generación en generación, hacen personalidades humanas diferentes” (4). Es el rechazo de la “lógica de lo inevitable”. La historia está siempre abierta y es determinable por la voluntad humana. Dos son, a nivel macrohistórico, los resultados posibles, los polos opuestos hacia los que dirigir el porvenir: la tendencia igualitarista y la tendencia sobrehumanista, ejemplificadas por Nietzsche con los dos mitemas del triunfo del último hombre y del advenimiento del superhombre (o, si se prefiere, del “ultrahombre”, como ha sido rebautizado por Vattimo en el intento de despotenciar su carga revolucionaria). El filósofo de la voluntad de poder afirma la libertad histórica del hombre mediante el anuncio de la muerte de Dios: quien ha adquirido la conciencia de que “Dios ha muerto” “no cree ya que esté gobernado por una ley histórica que lo trasciende y lo conduce, con toda la humanidad, hacia una finalidad- y un fin- de la historia predeterminada ab aeterno o a principio; sino que sabe ya que es el hombre mismo, en todo “presente” de la historia, el que establece conflictivamente la ley con la que determinar el porvenir de la humanidad” (5).

Todo esto lleva a Locchi a identificar una auténtica “teoría abierta de la historia”. El futuro, desde esta perspectiva, no está nunca establecido de una vez por todas, ha de ser decidido constantemente. No sólo eso: tampoco el pasado está cerrado. El pasado, de hecho, no es lo que ha acaecido de una vez por todas, un mero dato inerte que el hombre puede estudiar como si fuese un puro objeto. Al contrario, es interpretación eternamente cambiante. El tiempo histórico, lo vamos viendo poco a poco, asume un carácter tridimensional, esférico, estando caracterizado por interpretaciones del pasado, compromisos en la actualidad y proyectos para el porvenir eternamente en movimiento. El origen mítico acaba proyectándose en el futuro, en función eversiva con respecto a la actualidad. Las distintas perspectivas que brotan de ello acaban chocando dando vida al conflicto epocal.



El conflicto epocal

El “conflicto epocal” se da por el choque de dos tendencias antagónicas. Ya se ha dicho cuales son las tendencias de nuestra época: igualitarismo y sobrehumanismo. Toda tendencia atraviesa tres fases: la mítica (en la que surge una nueva visión del mundo de manera todavía instintiva, como sentimiento del mundo no racionalizado y, por tanto, como unidad de los contrarios), la ideológica (en la que la tendencia, habiéndose afirmado históricamente, comienza a reflexionar sobre sí misma y, entonces, se divide en diferentes ideologías contrapuestas entre sí) y la autocrítica o sintética (en la que la tendencia toma nota de su división ideológica y trata de recrear artificialmente la propia unidad originaria). Y si el igualitarismo (hoy en fase “sintética”) es la tendencia histórica dominante desde hace dos mil años, la primera expresión “mítica” del sobrehumanismo ha de buscarse en los movimientos fascistas europeos.

El fascismo, para Locchi, no puede ser comprendido más que a la luz de la “predicación sobrehumanista” de Nietzsche y Wagner (6) y de la “vulgarización” que de tales tesis llevaron a cabo los intelectuales de la Revolución Conservadora (que, por tanto, deja de ser una entidad “inocente”, abstractamente separada de sus realizaciones prácticas, tal y como quisiera cierto neoderechismo débil). Por tanto, el fascismo como expresión política del Nuevo Mito que apareció en el siglo XIX en algún lugar entre Bayreuth y Sils Maria. Entonces, algo nuevo. Pero, wagnerianamente, algo antiguo también.

El fascismo, de hecho, representa también la plena asunción del “residuo” pagano que el cristianismo no logró borrar y que ha sobrevivido en el inconsciente colectivo europeo. Un fenómeno revolucionario, en definitiva, que se reconoce en un pasado lo más ancestral y arcaico posible, proyectándolo en el futuro para subvertir el presente. El objetivo, de larga duración, es hacer que la Weltanschauung cristiana “retroceda más allá del umbral de la memoria”, derramando significados nuevos en los significantes viejos de matriz bíblica, tal y como originariamente el cristianismo “falsificó” los términos paganos para canalizar la propia visión del mundo en un lenguaje que no resultase incomprensible a las gentes europeas. Es el proyecto que el Parsifal wagneriano expresa con la fórmula “redimir al redentor” (7).



El mal americano

Pero la primera tentativa de actuar concretamente en la historia por parte de la tendencia sobrehumanista, como sabemos, desembocó en la derrota militar europea de 1945. Una derrota que puso al viejo continente entre las fauces de la tenaza construida en Yalta. En aquel periodo, está bien recordarlo, demasiados herederos del mundo que salió derrotado de la segunda guerra mundial pensaron en renovar su militancia sosteniendo uno de los dos brazos de la tenaza a expensas del otro, anhelando un Occidente “blanco” que no podía ser otra cosa que la “tierra del anochecer” (Abend-land) en la que ver el crepúsculo de toda esperanza de renacimiento europeo. Eligieron, aquellos “fascistas” viejos o nuevos, la táctica del “mal menor”, que, como se sabe, no es otra que la táctica del “tonto útil” vista… por el tonto útil.

En este contexto, será precisamente Locchi (no sólo, ni el primero: sólo hay que pensar en Jean Thiriart) quien denuncie las insidias del “mal americano”. Y El mal americano (Il male americano) es también el título de un libro que salió de un artículo aparecido en Nouvelle Ecole en 1975 con la firma de Robert de Herte y Hans-Jürgen Negra, pseudónimos respectivamente de Alain de Benoist y del mismo Locchi. Tal texto contribuirá de manera decisiva a depurar el corpus doctrinal de la Nueva Derecha de toda sugestión occidentalista. Por lo demás, los dos autores provocarán un cortocircuito en la lógica de los bloques citando una frase de Jean Cau: “En el orden de los colonialismos, es ante todo no siendo americanos hoy, como no seremos rusos mañana”. Hay una gran sabiduría en todo esto. En Il male americano América es descrita más en su ideología implícita, en su way of life, que en su praxis criminal. Una ideología hecha de moralismo puritano, de desprecio por toda idea de política, tradición o autoridad, de mentalidad utilitarista, de conformismo y ausencia de estilo, de odio freudiano contra Europa. Lo que especialmente interesa a los autores es la influencia de la Biblia en la mentalidad colectiva estadounidense, sin la cual serían inconcebibles los delirios neocon de la actual administración. Y además – el recuerdo del 68 estaba todavía caliente- no falta el repetido énfasis de la sustancial convergencia entre la contestación izquierdista y los mitos del otro lado del Atlántico. Nueva York como capital del neo-marxismo: basta con esto para distinguir el texto del Locchi/ de Benoist de las denuncias “progresistas” de los varios Noam Chomsky (aunque, por supuesto, también estos tienen su función).



La tierra de los hijos

Pero “el mal americano” es sobre todo un mal de Europa. Hoy que la guerra fría ha terminado ya y al orden de Yalta le ha sucedido el feroz solipsismo armado de un pseudoimperio fanático y usurero, nos damos cuenta de ello más que nunca. Europa: el gran enfermo de la historia contemporánea. Pero también una idea-fuerza, un mito, un retorno a los orígenes que es proyecto de porvenir, como proclama la lógica del tiempo esférico.

En este sentido, las referencias a la aventura indoeuropea o al Imperium romano, a las polis griegas más que al medievo gibelino sirven como materia prima a partir de la cual forjar algo nuevo, algo que no se ha visto nunca. “Si se quiere hablar de Europa, proyectar una Europa, es preciso pensar en Europa como en algo que nunca ha sido, algo cuyo sentido y cuya identidad han de ser inventados. Europa no ha sido y no puede ser una ‘patria’, una ‘tierra de los padres`, ésta solamente puede ser proyectada, para decirlo como Nietzsche, como ‘tierra de los hijos’ (8). Si tiene que haber nostalgia, entonces que sea “nostalgia del porvenir”, como en el (extrañamente feliz) eslogan del MSI de hace ya años. Este mundo que cree en el fin de la historia quizás está asistiendo simplemente al fin de su propia historia. Después de todo, nada está escrito. ¿Nos hundiremos también nosotros en las pútridas ruinas de esta decadencia iluminada con luces de neón? ¿O tendremos la fuerza para forjar nuestro destino a través de la institución de un “nuevo inicio”? Lo decidirá tan sólo la solidez de nuestra fidelidad, la profundidad de nuestra acción, la tenacidad de nuestra voluntad.



Notas:

(1) Stefano Vaj, Introduzione a Girogio Locchi, Espressione e repressione del principio sovrumanista (La esencia del fascismo).Entre los intelectuales influenciados por Locchi recordamos, además del propio Vaj, todo el núcleo fundador de la Nouvelle Droite de los años 70/80, desde De Benoist a Faye, pasando por Steuckers, Vial, Krebs, pero también Gennaro Malgieri y Annalisa Terranova, hoy en AN. Ideas locchianas aparecen también en tiempos recientes en Giovanni Damiano y Francesco Boco. No podemos dejar de citar, además, a Paolo Isotta, crítico musical del Corriere della Sera (¡!), a quien Maurizio Carbona logró convencer para que redactara un entusiasta ensayo introductorio al libro sobre Nietzsche y Wagner y que últimamente (véase la siguiente nota) ha vuelto a citar a Locchi precisamente en las columnas del mayor diario italiano.

(2) Paolo Isotta, “La Rivoluzione di Wagner”, en Il Corriere della Sera del 4/4/05

(3) Hay que decir, además, que entre los papeles que Locchi dejó, se encuentra diverso material inédito, entre el cual está un ensayo sobre Martin Heidegger probable y desafortunadamente destinado a no ver nunca la luz.

(4) De Wagner, Nietzsche e il mito sovrumanista.

(5) Ibidem

(6) Por otra parte, gran mérito de Locchi es el hecho de haber redescubierto las potencialidades revolucionarias de la obra wagneriana en un ambiente que continuaba pensando en el compositor alemán desde la perspectiva de la doble “excomunión” nietzscheana y evoliana.

(7) Los Indoeuropeos, la filosofía griega, la Konservative Revolution, el fascismo, Europa: el lector atento habrá vislumbrado, detrás de referencias semejantes, la sombra pujante de Adriano Romualdi. Y sin embargo, increíblemente, Locchi desarrolló su pensamiento de manera completamente autónoma de Romualdi. Es más, será sólo gracias a algunos jóvenes italianos que fueron a visitarle a París como el filósofo conocerá la obra del joven pensador que murió prematuramente. Sin dejar de subrayar la objetiva convergencia de perspectivas. Al respecto, véase La esencia del fascismo como fenómeno europeo. Conferencia-Homenaje a Adriano Romualdi, que reproduce un discurso de Locchi pronunciado precisamente en honor del llorado autor de Julius Evola: el hombre y la obra.

(8) De L’Europa: non è eredità ma missione futura